12 Marzo 2012 Roger Daltrey, Who e Tommy
di Marco Ledda
Ok, non sono gli Who, come Roger Daltrey afferma on stage, quasi a mettere le mani avanti.
D’altronde Pete Townshend, l’altra metà della storica ditta, non è rimpiazzabile da alcuno.
Detto ciò Roger Daltrey è in Italia per fare il suo mestiere, cioè cantare, solo per la terza volta in 48 anni di carriera e 68 di vita appena compiuti, essendo nato il 1 marzo 1944.
La prima nel ’67 per una breve tournee e la seconda nel 2007 per una sfortunata data all’Arena di Verona in cui, causa un furioso temporale, divenne quasi completamente afono nel corso del concerto.
Il che vuol dire che questo tour italiano, appendice di una serie di concerti divisi tra Gran Bretagna e Stati Uniti, è un avvenimento che pochi appassionati degli Who, perché comunque è qui che si ritorna, vorranno perdersi.
Anche perché il programma promette di essere succulento.
L’intera opera rock Tommy più altri classici comunque ricollegabili al nostro.
Eh si, perché la storia del rock ricorda solo rari eventi in cui la storia del ragazzo sordo, muto e cieco è stata eseguita per intero.
Talvolta negli anni susseguenti al 1969, anno di pubblicazione del doppio album, e nel 1989, in occasione del ventennale con una tournee con numerosi ospiti ad interpretare i vari personaggi.
Senza dimenticare la versione teatrale dei primi anni ’70 e quella cinematografica con la regia di Ken Russell nel 1975 e lo stesso Daltrey nei panni di Tommy.
Lo stesso Pete Townshend, autore di questo monumento, e sempre più refrattario alle tournee a causa dei suoi problemi di udito, ha benedetto questo esperimento del suo storico sodale, a cui, negli anni, continua a legarlo un rapporto di amore/odio come poche altre coppie (artisticamente parlando).
Infatti, nonostante entrambi provengano dalla Londra operaia, Townshend si è evoluto fino a diventare un raffinato intellettuale, mentre Daltrey è rimasto, e non fa nulla per celarlo,con l’immagine del teppista attaccabrighe che è stato quando lavorava in fabbrica e nel weekend inseguiva le ragazze e il sogno di diventare un musicista.
Ma veniamo al concerto.
Biglietti dal costo superiore alla media ma pare che questo non abbia scoraggiato i torinesi.
Overture parte alle 21 appena passate, con la band schierata attorno a Roger, vestito di nero e munito di due tamburelli.
Alla sua destra, chitarra e seconda voce, comunque un Townshend c’è. E’ Simon, fratello minore di Pete, e membro della Who touring band, e con la voce particolarmente somigliante, acuta e in contrasto con quella robusta e bluesy di Roger.
L’inizio è, vocalmente, un po’ farraginoso, e Daltrey ammette che cantare tutte le sere non è certo l’ideale per chi, come lui, ha avuto problemi vocali di una certa importanza.
Il pubblico segue il dipanarsi dell’opera un po’ compassato, come se fosse al Teatro Regio ad una prima della Traviata.
Già con le prime note di The acid queen alcuni iniziano ad alzarsi in piedi, ma è con il riff di Pinball wizard dell’acustica di Townshend che il ghiaccio si scioglie istantaneamente. E da qui in avanti anche Roger acquista più sicurezza, anche se la tenuta vocale complessiva è assicurata solo grazie ai cori di Townshend e dell’altro chitarrista Frank Simes.
Fino al gran finale, con la sofferenza blues di See me, feel me e il canto liberatorio di Listening to you.
Ovazione finale di ragazzi che sicuramente hanno avuto il disco tramandato dalle generazioni precedenti e di pensionati che nel 1969 erano adolescenti a loro volta.
La seconda parte è quella più personale, in cui vengono messe in fila canzoni non tra le più conosciute degli Who, vedasi I can see for miles e The kids are alright, Behind blue eyes, più acustica dell’originale contenuto in Who’s next, una My generation lenta e modellata sulle 12 battute del giro di blues (la strofa I hope I die before I get old è tra le più emblematiche dell’intera storia del rock),e una immancabile Who are you.
Ancora brividi per il gran finale, quando il loop elettronico di Baba O’ Riley arroventa il già caldo clima del Colosseo, con tutto il pubblico che si sostituisce a Daltrey intonando Don’t cry
Don’t raise your eye It’s only teenage wasteland.
E si conclude con Roger che ringrazia tutti gli intervenuti augurando salute e fortuna, proprio come ti aspetteresti da un vecchio zio di cui ti eri quasi dimenticato ma che ha saputo ancora una volta emozionarti con le vecchie storie che tu, da piccolo, ascoltavi seduto sulle sue ginocchia.
E sapendo che nel 2013 si celebrano i 40 anni dell’uscita dell’altra grande opera rock degli Who, Quadrophenia, non resta che augurarsi che, nemesi, il muto Roger Daltrey e il sordo Pete Townshend risorgano come Tommy dalle loro ceneri e tornino su qualche palco, a diffondere ancora il loro verbo.
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