seguici su facebook seguici su twuitter

Jethro Tull’s Ian anderson in Thick as a Brick 2

 

di Marco Ledda

Thick as a brick 2Era la primavera del 1972.

Un compagno di scuola, studente di pianoforte e appassionato di musica, interesse che ci accomunava, mi dice :

-     Ti presto un disco che devi ascoltare ! C’è un flautista che è meglio di Severino Gazzelloni ! Si chiama Ian Anderson, ed è il leader dei Jethro Tull.

E mi consegna un LP la cui copertina sembra ricavata da una copia di un quotidiano sulla cui testata c’è scritto St.Cleve Chronicle (formato tabloid, ovviamente).

Sul vinile una sola canzone di 40 minuti, divisa sulle due facciate, il cui titolo era Thick as a brick.

Mi basta un ascolto per decidere di volerne una copia tutta per me.

Quella copia è ancora nel mio scaffale, religiosamente conservata dentro la pellicola di plastica che la preserva dalla polvere. A quel vinile consumato nei decenni si sono nel frattempo aggiunte alcune copie in CD, inconsumabili ma altrettanto ascoltate.

Tutto ciò per spiegare il mio entusiasmo quando, all’inizio del 2012, leggo che il 4 aprile sarebbe uscito Thick as a brick II. E nel constatare che non si tratta dell’ennesima versione deluxe, ma del secondo capitolo della storia colà raccontata e sottintesa.

Mi spiego meglio per i non adepti.

Ian Anderson, in quel mitico, musicalmente parlando, 1972, con l’ironia e l’intelligenza che ne ha fatto una rockstar molto sui generis, inventa di aver musicato un poema di un ragazzo di 8 anni, Gerald Bostock, vincitore di un concorso e poi successivamente squalificato. Inutile dire che autore anche delle liriche era lo stesso Anderson, che una volta di più lascia intendere quanto i Jethro Tull non siano nient’altro che il suo gruppo di spalla.

L’album è un trionfo: n. 5 in Gran Bretagna ma, soprattutto, n. 1 negli Usa, dove i Jethro Tull sono ormai al livello di Rolling Stones, Who e Led Zeppelin,

Thick as a brick II, composto dopo un arduo corteggiamento dei manager della casa discografica, è un ritrovare, 40 anni dopo, Gerald Bostock ormai adulto. Anderson si chiede : cosa sarà mai diventato, un prete, un militare, un banchiere, un disadattato? E nelle sue scelte, avrà inciso maggiormente il caso o il libero arbitrio ?

Ecco, lo show al Teatro Colosseo, esaurito da più di un mese, comprende entrambe le parti della storia. Da notare che sono quarant’anni che Thick as a brick non viene più eseguito per intero, quindi la curiosità è tanta.

Arrivando subito alle conclusioni posso affermare che, dopo tanti anni di tournèè meccaniche e un poco ripetitive (lo ammette anche chi, come il sottoscritto, rischia la poca obiettività) questa volta gli assenti hanno avuto torto.

Ovviamente le parti vocali dell’album del ’72 sono per la maggior parte inarrivabili per la voce di Anderson com’è attualmente. Non tanto per l’età, quest’anno sono 65, quanto per l’intervento alle corde vocali subito a metà degli anni ’80. E che ti escogita il nostro ? Oltre ai musicisti che l’accompagnano, tutti habituè del giro andersoniano, David Goodier al basso, John O’Hara alle tastire, Scott Hammond alla batteria e Florian Opahle alla chitarra, inserisce un attore, Ryan O’Donnell, che, oltre ad interpretare sul palco figurativamente Gerald Bostock, funge da voce recitante e secondo cantante, alleggerendo il lavoro di Anderson che si dedica con più leggerezza alla chitarra acustica e a quel  flauto che ne ha fatto un icona del rock.

Inoltre la seconda parte, basata sul materiale nuovo, e che su disco appare congrua ed intenzionalmente datata, sul palco appassiona e coinvolge, con il pubblico che apprezza, manco fosse già un classico.

Post scriptum.

Alla fine di Thick as a brick II inchini dei musicisti e fuga dietro le quinte con What a wonderful world di Armstrong ad indicare che il concerto è finito e che non ci sarebbero stati bis.

Si accendono le luci in sala ma il pubblico, dopo oltre due ore, non vuole saperne di finire così la serata.

Cosicché Anderson e i suoi sono costretti, ma, mi pare, senza troppo dispiacersene, ad uscire e ad eseguire la canonica Locomotive breath, in una versione tiratissima cantata a due voci da Anderson e O’Donnell e con una partitura per basso quasi funky del bravissimo David Goodier.

Dinosauri, certo, ma in fondo la scena rock contemporanea, tolti Cold Play, Radiohead, Arcade Fire e pochi altri, è ancora dominio loro.

E l’evoluzione della musica che tanto amiamo non lascia ancora intravvedere all’orizzonte alcun mammifero che possa conquistare la posizione eretta..

Share

Lascia un tuo commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>